Estratto di “Berta, la leggenda” – romanzo inedito

 

In occasione della rievocazione storica Il filo di Berta che inizia oggi, sabato 27 maggio, ecco un estratto del romanzo inedito

Berta, la leggenda

il filo di berta

La rivisitazione romanzata della leggenda nella libera interpretazione della  scrivente.

Fàbula

 Uno scalpitio di zoccoli esplose sui ciottoli davanti l’uscio. Uno schianto! Nessun preavviso, non ci fu più tempo. Lo spavento investì i giovani coniugi quando le guardie irruppero nella casupola sfondando il battente. Berta rimase paralizzata, ferma a piè sospeso tra il focolare e il tavolo, con in mano la zuppa di cavolo che serviva per cena a Raniero.

Non si mosse mentre i tre cavalieri armati di spada e catene prendevano di forza il suo sposo e lo portavano fuori.

Fu tutto un attimo, nemmeno il tempo di un urlo.

Attonita guardava la tragedia che si consumava davanti ai suoi occhi mentre la scodella fumante le ustionava le mani e, d’un tratto, un posto a tavola era vuoto.

Quelli erano i cavalieri dei signori da Montagnon; aveva riconosciuto lo stemma ricamato sui loro mantelli.

In quel frangente la sua vita finiva, portata via dall’onda violenta piombata nella sua piccola cucina e risucchiata dallo sventolio dei mantelli. Quei soldati le rubavano il centro di gravità delle sue giornate, scomparendo nelle tenebre della notte imminente. Raniero non c’era più.

Appoggiò la ciotola e corse fuori.

Il sole già calato oltre il profilo scuro dei colli lasciava l’alone rossastro a illuminare la sera di tardo autunno.

I cavalieri erano già lontani. Berta vide la piccola sagoma di Raniero che arrancava per star dietro ai tre senza cadere. Lui sapeva bene che una volta a terra sarebbe stato trascinato. I suoi carcerieri non si sarebbero mai fermati per farlo rialzare, per loro vederlo strisciare fino in cima al Monte Castello sarebbe stato ancora più divertente.

Era quella la destinazione, Raniero sarebbe stato ospite delle segrete dei signori da Montagnon. Per lui era riservata una cella fredda, sporca e puzzolente; quello era il suo prossimo alloggio e, forse, anche l’ultima dimora.

La paura aveva attraversato il corpo di Berta col soffio gelido della morte, lasciando il posto alla disperazione. Si precipitò dietro al piccolo convoglio urlando, piangendo e maledicendo. Con le braccia raccolse la gonna per liberare le gambe e correre più veloce, ma inciampò, perse uno zoccolo e scivolò dentro una pozzanghera. Rotolò nel fango e si ritrovò seduta per terra a gambe aperte come una bambola dimenticata. Rimase a fissare il suo amore, mentre scompariva nel buio tra la sterpaglia incombente lungo il sentiero, che, dopo la prima svolta, risaliva il crinale del monte verso il castello dei signori feudatari di San Pietro Montagnon.

Anche raggiungere il corteo, a cosa sarebbe servito? L’avrebbero cacciata a calci, se tutto andava bene, e chissà cos’altro. Era già stata una fortuna, che la casa non fosse stata data alle fiamme e lei picchiata a morte, o peggio, come era costume fare a chi, in debito con i feudatari, non pagava le tasse o tardava a saldare la decima.

Infangata fino ai capelli si rialzò, confusa. Rientrò in casa e sedette a tavola sulla panca, ancora calda, dove pochi istanti prima sedeva Raniero. Abbandonata allo sgomento, col capo appoggiato sulle braccia, pianse fino ad addormentarsi.

-sulla strada del Monte Castello che conduce al palazzo dei da Montagnon. Berta, la filatrice inginocchiata ai piedi dell’Imperatrice Bertha di Savoia regina di Franconia implora la grazia –

 “Regina mia bella ti prego, ti supplico, voi che siete bella e buona, aiutatemi e concedete la grazia al mio Raniero, ti prego mia bella regina”

“Ma che vuoi brutta pezzente come ti permetti di avvicinarti alla regina senza essere invitata? Via, via, va via!”

“No. Ferme. Che cosa dice questa donna? Perché piange? Chi devo salvare? Che cosa chiede? Lasciatela parlare.”

“Mia regina è solo una poveraccia che chiede la grazia per il suo innamorato” … “El mario l’è sta’ arrestà perché non ha pagà la decima…” “Il sior Montagnon ha aspettà tanto, ma lu non ha pagà…” “Non paga e allora che cosa poteva far?” “Se non se ghe insegna ea creanza a sti vilani ignoranti dopo nissun paga pì.” “El sior l’ha arrestà e desso el spetta de castigarlo.”

“Le comari del corteo tentavano di allontanare la povera filatrice, che a loro parere infastidiva la regina, ma l’Imperatrice voleva sentire che cosa diceva la mendicante. Berta le stringeva il bordo della veste e lo baciava tra le lacrime. La Regina non prestava ascolto alle comari che le vociavano intorno insultando la poverella ed elogiando i signori Montagnon che erano stati fin troppo magnanimi per aver a lungo tollerato le mancanze del condannato. La poverella restava stesa a terra con le braccia tese a trattenere l’orlo della veste come fosse l’ultimo filo a cui legare la speranza di salvezza, mentre l’Imperatrice, un po’ spinta e un po’ tirata, pian piano si allontanava senza riuscire a staccare gli occhi dalla poveretta. Berta alzò il capo per guardare in volto la regina e incrociò per qualche istante gli occhi tristi dell’imperatrice, in quel breve frangente vi lesse la sua stessa disperazione. Anche la regina Bertha avvertì il comune triste dolore, ma lei nello sguardo disperato della povera contadinella vide ancora brillare il lume della speranza, quella speranza che col tempo invece in lei si era spenta. La povera regina aveva vissuto tutta la vita rincorrendo un sogno, e ora? Quel sogno regalatole alla nascita. Imposto. Quel sogno non suo, ma cresciuto con lei, che da piccina aveva vissuto nel mondo delle fiabe popolato di fate, re e principesse felici. Un sogno seminato, anzi, impiantato nella sua mente e che nel germogliare e crescere l’aveva convinta fosse quello l’unica fonte di felicità capace di colmare di gioia il suo cuore. Quel sogno però era presto appassito. Solo ora, in quel feudo sperduto ai piedi di un colle degli Euganei, in quel luogo che appariva magico, dove l’acqua evaporando guarisce i mali del corpo, la regina Bertha sprofonda in fondo agli occhi imploranti della povera filatrice. Diventare Imperatrice del Sacro Romano Impero aveva davvero fatto la sua felicità? Dov’era il suo sogno felice? Chi l’aveva sognato? Che cos’era stata la sua vita? Dov’era l’amore che culla le rapide della passione? Lei non aveva goduto del placido strabordio delle onde che si infrangono lente sulla sabbia. Lei aveva navigato le rapide violente, intervallate da brevi tregue e poi sbattuta sulla riva, a riprendere fiato. In fondo agli occhi della poverella aveva visto l’amore. Vedeva il dolore della separazione dal bene amato. Invece, lei? Avrebbe sofferto così tanto nel sapere in pericolo l’Imperatore suo marito? Lei che subiva gli amplessi violenti e aveva sopportato tutte le angherie e tradimenti per dovere di rango? Non avrebbe invece accolto come una liberazione quella separazione forzata, non aveva più volte desiderato di ritirarsi in qualche convento in cerca di pace?.”

 “…La povera regina era molto malata e soffriva di forti dolori. Facendo sosta al maniero dei Signori da Montagnon in cima al Monte Castello, dove oggi è rimasta in piedi solo una torre, avrà probabilmente fatto dei bagni salutari nelle acque termali. Le fonti termali hanno una lunga storia in ambito curativo e a Montegrotto, proprio sotto il colle del castello, più o meno dove ora c’è l’hotel Terme Preistoriche, doveva esserci un laghetto considerato addirittura sacro. Quella zona ha una storia antichissima. Sembra che lì sorgesse un santuario dedicato a una divinità salutifera, in grado di predire il futuro. Infatti, Mons Aegrotorum, significa monte degli ammalati. Qui sono stati ritrovati vasetti e altre cose in bronzo, rappresentanti varie parti del corpo. Si trattava di evidenti offerte votive alla divinità, date in dono per chiedere la guarigione.”

“…Montegrotto deriva da monte degli ammalati, invece Abano deriva da Aponus e dal greco a-ponos, il cui significato è toglie il dolore. Detto questo, la divinità adorata era Apono e al culto delle acque di Apono, si legò la figura mitica di Gerione.”

“Gerione, quello di Dante…”

… Berta, che, senza il suo Raniero, passava tutti i giorni a rincorrere i potenti signori del castello. Quando ormai le speranze la stavano abbandonando, la giovane si imbatté proprio nella regina Bertha, mentre si recava alla chiesa episcopale per assistere alla messa o forse mentre tornava dal bagno curativo al laghetto. Comunque appena Berta vide l’imperatrice, le corse incontro e le si buttò ai piedi in lacrime, sfinita da tanto dolore e ansia. Le baciò le vesti e la implorò di concedere la grazia al suo amato marito, ormai da tempo prigioniero nelle segrete del castello, dove il boia era già stato incaricato di giustiziarlo. La leggenda narra di una regina impressionata dal coraggioso gesto d’amore della contadinella per il suo Raniero. Forse rivide brillare negli occhi della povera pezzente, lo stesso amore, che un tempo l’aveva illusa, colmandole il cuoricino di fanciulla. Berta venne allontanata e cacciata dalle dame di compagnia, le quali formarono una sorta di barriera insormontabile intorno alla regina. Ma l’incontro di sguardi tra le due donne, lasciò il segno.”

“L’amore altera le immagini, amplifica le emozioni e aumenta la sensibilità.”

…“Allora, il mattino dopo era il giorno dell’esecuzione di Raniero. La regina aveva dormito poco quella notte e anche i brevi periodi di sonno, erano stati tormentati da incubi. Solo verso l’alba aveva ritrovato un po’ di tranquillità e riuscì ad assopirsi. Le ancelle la svegliarono quando il sole era già alto e in fretta l’aiutarono a prepararsi per assistere all’esecuzione. I signori da Montagnon avevano organizzato quel macabro spettacolo, come inizio dei festeggiamenti per il grande onore, che le loro altezze avevano regalato a quel piccolo feudo ai piedi dei colli Euganei.

 La regina dormì sonni agitati quella notte. Immagini confuse disturbarono il suo riposo, tant’è che il mattino dell’esecuzione faticò a riemergere dal torpore febbricitante, che le intorpidiva la mente. Rimase a lungo sospesa nell’atmosfera surreale del lago, dove sognò di essersi immersa per guarire dai dolori che le rodevano le ossa. Nel sogno notturno camminava lenta, lasciando che l’acqua salisse fino a coprirle le gambe, la pancia e il seno. Non vedeva più la riva, il vapore denso le riempiva gli occhi e un biancore fumoso filtrava la luce e copriva l’orizzonte. Anche le voci delle serve, rimaste a riva con i teli asciutti e le vesti pulite, arrivavano attutite, come provenissero da molto lontano. Una figura emerse, fermandosi sospesa sul filo dell’acqua. Sembrava un vecchio fantasma, i capelli e la barba lunghissimi si confondevano con le vesti bianche, ma gli occhi azzurri erano ben visibili, risaltavano come la Veronica Persica sul prato innevato e guardavano lei in modo inquietante. Non aveva paura, ma quello sguardo le trasmetteva una profonda tristezza. La presenza non parlava, non si muoveva nemmeno, immobile e sospesa un metro sopra di lei, non smetteva di fissarla. Un dolore le strinse il cuore, sentì un forte desiderio di pianto che le serrò la gola. Non riusciva a parlare. Avrebbe voluto chiedere chi fosse, il suo nome, che cosa volesse, perché la guardasse con tanta insistenza e se avesse un messaggio per lei, ma non riusciva a emettere alcun suono. Pensò di essere diventata muta. Solo il pianto le venne spontaneo, null’altro riuscì a fare. Sciolse la stretta al cuore, liberando un muto lamento, trasportato dai rivoli di lacrime. Anche il vecchio piangeva. Le lacrime caddero mescolandosi con le acque del lago e quelle gocce, cadendo, formavano dei grandi cerchi concentrici. Il lago assorbì quel pianto e lo fece suo.

Il torpore lasciato dal sogno non l’abbandonò per tutto il giorno. Mentre le serve la alzavano dal letto e la vestivano, lei continuava a chiedersi: chi era quel vecchio che le era apparso? Perché era venuto a disturbarle il sonno col suo carico di tristezza? Questi pensieri pesavano sul capo della regina. Le dame non fecero molto caso al suo stato, sapevano che la regina soffriva tanto e pensarono fosse in preda a uno dei suoi dolori. In rispettoso silenzio l’accudirono e l’accompagnarono dal re che l’aspettava per scendere in piazza e assistere alla festa.

Il corteo con i nobili e i reali, scortati dalle guardie scesero dal colle e presero posto sul palco d’onore nella piazza, dove era stato alzato il patibolo. Arrivò il prigioniero, in catene. Si vedeva che era molto provato dai lunghi giorni trascorsi nelle segrete del castello. A stento si reggeva in piedi. Dietro incedeva lentamente il massiccio boia incappucciato, che teneva appoggiata a una spalla la scure affilatissima. Raniero sembrava rassegnato e pronto ad affrontare il suo destino. Berta tra la folla si disperava, trattenuta dalle comari, cercava di toccare per l’ultima volta il suo amore. Sul patibolo, il ceppo decapitale, ancora insanguinato dall’ultima esecuzione, aspettava di assorbire altro sangue.

La regina stava seduta immobile e sembrava assente, invece la sua anima era tra la folla. Sentiva viva in sé la sofferenza di Berta, la rassegnazione di Raniero e la pena del popolo. Condivideva il dolore di un grande amore reciso con violenza e rammentò il sogno. Il sogno ora le stava svelando il suo messaggio. D’un tratto capì. Che cosa chiedeva la plebea ignorante, che qualche giorno prima le era caduta ai piedi, baciandole la veste? La poverina chiedeva la grazia per il suo amore. Gli occhi azzurri gonfi di pianto, sognati nella notte appena trascorsa, erano lì, in quella piazza, erano gli occhi di Berta, del popolo e di quella magica terra, che stava per essere violentata. Ora tutto era chiaro. Il sogno trovava il suo significato e lei capiva perché il destino l’aveva condotta proprio lì, in occasione di quel tragico evento.

Raniero era ormai sul patibolo e la sua testa appoggiata sul ceppo. Sapeva di essere morto e non pose nessuna resistenza. Berta piangeva, in silenzio, soffocata dalle lacrime, capace solo di un flebile lamento.

Il boia era pronto, sollevò la scure e in quell’istante la regina si destò, di scatto balzò in piedi, urlando: “No! Fermo!”

Tutta la piazza trattene il respiro. Il boia fu vicino a perdere l’equilibrio e a stento trattenne la scure, che già aveva iniziato la sua discesa.

La regina si accostò al re consorte e gli sussurrò alcune parole all’orecchio. L’Imperatore si staccò da lei, osservandola incredulo, ma poi continuò ad ascoltare le sue parole e alla fine annuì. Le sorrise benevolo, si alzò e con immensa dolcezza la aiutò a sedersi. La Regina crollò sul trono stremata, ma ora sollevata e felice. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei. Quindi il re si pose in piedi al centro del palco a occupare la scena. Con gesto maestoso del braccio si liberò dal mantello e la figura regale riempì gli occhi di tutti i presenti.

“Fermi!” disse. “Ve lo ordina il Re. Io, Rex Romanorum Enrico IV Imperatore del Sacro Romano Impero, vi ordino di fermarvi. Sua maestà Bertha di Savoia, Imperatrice del Sacro Romano Impero, ha deciso di concedere la grazia a quest’uomo. In questo luogo benedetto da Dio, dove da secoli il corpo trova guarigione e dove le anime sofferenti arrivano in cerca di sollievo, la regina, mia diletta consorte, non vuole che la nostra presenza sia ricordata come un giorno di lacrime, dolore e morte. Se oggi le lacrime bagneranno questa terra, saranno solo lacrime di gioia e felicità. Come primo gesto da Imperatrice, la vostra soave regina ha deciso di concedere la vita a questo suddito e stabilisce che gli vengano condonati tutti i reati. Quindi io vi ordino di liberarlo subito.”

“Berta gheto sentio? Ciò, ehi Berta!”

“Berta Raniero el xe libero.”

“Berta non te si mia contenta, va a torte to mario, dai!”

“Che bona sta regina.”

“Che bel gesto che ea ga fato”

“Ma Berta dove che te cori? Raniero el xe da staltra parte.”

“Dove che la va? Ea xe deventà mata!”

Berta in preda alla felicità, in un impeto di riconoscenza e per ringraziare la Regina dell’immenso dono concessole, corse a casa e aprì il cassone dov’era custodito il rocchetto di lana che lei, con le sue mani, aveva filato durante i lunghi giorni di prigionia di Raniero. Quella lana lavata con le lacrime versate nel filarla, doveva servire a tessere la veste di sepoltura di Raniero. Una lana finissima, morbida e inzuppata dell’amore riversato nel pianto. Berta prese la matassa, la strinse al petto e corse attraverso il parapiglia della piazza, facendosi largo per raggiungere il palco reale. Superò la folla, che acclamava gli Imperatori, riuscì ad arrivare fino ai piedi della Regina. Quando le fu davanti, si stese a terra, sollevando e reggendo in alto il rocchetto di lana.

“Mia bella Regina, mia salvatrice, non ho nulla per ringraziarti, ma ti dono l’unico tesoro che posseggo. Spero che questa lana, che ho filato con amore possa riscaldare il tuo cuore.”

La Regina abbassò lo sguardo, tentando di distinguere la contadinella in quel fagotto di stracci, che d’un tratto si era accasciato ai suoi piedi e dal quale spuntavano due piccole mani con una matassa di lana. Prese il rocchetto e le due donne si guardarono.

Quella poveretta le donava tutto ciò che aveva, il suo unico tesoro. In quel breve istante pensò a quello che era stata la sua vita. Aveva avuto tutto, ma le mancava l’unica cosa, che aveva desiderato fin da bambina.

Il suo cuore, inaridito nel gelo della solitudine aveva atteso per anni il calore del sentimento. Adesso, davanti a lei, c’era una povera pezzente, che nulla aveva mai avuto dalla vita, ma possedeva un cuore, il cui forte battito d’amore era il più grande dei privilegi. Capì che per lei non c’era più tempo, non c’era una seconda vita da vivere per recuperare l’amore negato. Ma quella giovane donna innamorata, alla quale lei aveva appena ridato la speranza, le regalava un momento di felicità. Si prese la libertà di godere della gioia di un’altra donna. Come nel sogno, Bertha sciolse la stretta al cuore e liberò uno slancio di generosità. Fece alzare la poveretta e le disse a gran voce:

“Tu ora con questo filo traccerai un confine e tutta la terra che riuscirai a racchiudere nel cerchio risultante sarà tua. Così sarà affinché tu possa vivere il tuo amore, senza mai più temere per la tua salvezza e per la vita del tuo amato. Ora vai e vivi felice.” Poi guardandola negli occhi, a bassa voce in modo che nessuno sentisse, le bisbigliò: “Sii felice.”

Monica Bauletti

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amica mia.

didone abbandonata

 

Sulla veranda invasa dal sole, la sedia a dondolo aspetta l’ospite. Il sole al crepuscolo non brucia più e trasforma in oro ogni cosa. È l’ora in cui il giorno muore portando con sé fatiche e doveri. Puntuale Agata arriva, si adagia piano e asseconda il dondolio che culla il piacere del riposo.

Un sollievo le gonfia l’esile petto. È questo il momento solo suo, sulle ginocchia tiene un libro importante. Prima di correggere gli occhiali sul naso distrae lo sguardo all’orizzonte dove vanno a dormire mille e più fenicotteri rosa. Lo spettacolo che la natura le offre, nell’ora serale, ben concilia la lettura. Per nulla al mondo permetterà mai alla vita di rubarle quel momento di solitudine.

Le letture, mai casuali, la guidano nel limbo che connette i suoi sensi, e le antiche eroine le parlano.

Agata legge seguendone la scia discreta e cortese lasciata dal passaggio, ne insegue il profumo, coglie i sorrisi, le emozioni, le paure e le gioie. Calpesta le impronte rosa sulla trama storica zampettando tra le pennellate sparse da pittori distratti, come pietre colorate su torrenti a tratti impetuosi e poi placidi.

Didone l’aspetta sul ciglio del tempo. Agata aggiusta gli occhiali, ma non legge, appoggia la testa allo schienale imbottito e chiude gli occhi, la mano accarezza lenta l’Eneide che giace paziente sul grembo, il segnalibro di seta viola apre al libro IV.