Noi due ci apparteniamo di Roberto Saviano

Noi due ci apparteniamo di Roberto Saviano


Non so se ci sia un modo comodo per leggere un libro scomodo. Che ci si metta stesi a letto avvolti da morbidi cuscini o cullati su una amaca in giardino tra il cinguettio delle cinciallegre in primavera, oppure sulla chaise-longue del divano o sulla poltrona relax sotto un morbido plaid nessuna comodità potrà alleggerire il contenuto delle pagine del libro di Roberto Saviano. È inevitabile uscire dall’esperienza di questa lettura con l’orrore negli occhi e una ferita nell’anima.
Anche a leggerla a testa in giù, la realtà narrata da Saviano, non può sembrare meno mostruosa di quanto è. Forse ci si può illudere che quanto narrato non appartenga al mondo di tutti e che che sia parte di un mondo che scorre su una rotaia parallela che non potrà mai intersecarsi con la vita di chi sceglie la legalità. Forse. Saviano però, con questo libro, costringe il lettore a uscire dall’oblio. Gli orrori descritti sono reali confutati da nomi noti e da notizie conosciute. Li ripropone con tutto il carico di orrore, sangue e violenza che sono sfuggiti nella velocità della cronaca. È il vomito di bocconi più o meno recenti impossibili da digerire. Ogni arresto, violenza, omicidio, massacro descritto contiene il lezzo fermentato nel tempo ed esala un acre odore ripugnante che lascia in bocca il sapore di ferro.
È un perpetuo atto di generosità che Saviano fa ad ogni sua uscita. Una scossa per defibrillare le coscienze sopite.

Ringraziare è d’obbligo.

M.B.

VITA

Quanto tempo perso ad aspettarti mentre crescevi lontano da me
Quanti occhi incrociati sperando di riconoscerti e cercando nel fondo il posto mio
Quanta tristezza sofferta nella solitudine di interminabili giorni vuoti con la paura di non incontrarti mai.
Chissà se il destino burlone ha giocato con le nostre vite creando coincidenze per avvicinarci senza permetterci di trovarci
Chi ci accoppia alla nascita dovrebbe lasciarci la mappa del percorso da seguire per raggiungerci.
Quale senso ha la vita vissuta lontani se i nostri cuori hanno iniziato a battere il giorno del primo incontro?
Non sprecare un solo istante del tempo assieme, non distrarti spostando il baricentro oltre il mio.
Viviamo come farfalle una sola stagione, se ti allontani al ritorno potresti non trovarmi più, ma se fondiamo le nostre anime resteremo uniti per sempre anche dopo la bella stagione.
M.B.

Oltre l’abisso

Lui se ne è andato. Mi ha detto -Non ti amo più – ed è andato via.
Il primo e unico pensiero che la mia mente riuscì a produrre fu rivolto ai nostri figli. Come potevo spiegare a due bambini che il papà che tanto adorano va via di casa perché non vuole più stare con me? Come se fosse mia la colpa. È mia la colpa?
Può finire così un amore?
C’era odio nella sua voce. C’era la volontà di fare male. Se ne è andato lasciandomi sanguinare dai lembi di una ferita che pareva non si sarebbe mai più rimarginata.
Che cosa potevo fare?
L’unica cosa che mi veniva bene era piangere. Però lo facevo di nascosto. Vabbè, di nascosto, come non si vedesse che avevo pianto.
Trasformare il dolore in odio poteva essere d’aiuto, ma non ci riuscivo. Continuavo a credere di aver mancato in qualche cosa. Troppo presa a essere una buona madre non ero stata una buona moglie, ma i figli erano anche suoi.
Non c’erano incompatibilità tra di noi, non c’erano litigi. Un po’ di assenza, forse quella sì. Ora riconosco qualche sintomo di insoddisfazione o forse era sopportazione, ma fra due persone che si conoscono da più di vent’anni succede. Insomma il nostro era un grande amore, io ero sicura di questo. Stavamo bene, c’era libertà, io avevo sempre sostenuto le sue idee, ambizioni, bisogni. Avevamo trovato soluzioni impossibili per il bene famigliare. Non c’erano situazioni intollerabili tra di noi. Non c’era niente che andasse proprio male.
E intanto che il sangue sgorga e mi intossica l’anima ti vedo con lei.
Eri l’amore della mia vita. Eri l’uomo che mi faceva stare bene. La tua presenza era una certezza, saturavi l’ambiente. C’ero io e c’eri tu. Non serviva altro.
Ti vedo al bar, lo spritz alzato mentre ridi e accarezzi una mano che non è mia.
L’uomo che vedo è un estraneo, quello che ho amato, che ho sposato, il padre dei miei figli non c’è più. È svanito come una bolla di sapone.
Credevo saremmo invecchiati insieme, immaginavo la nostra complicità nelle quiete acque una volta superata la tempesta dei periodi burrascosi fatti di mille impegni, tra lavoro, scuola, compleanni, esami, adolescenze da gestire primi amori e prime delusioni.
Le prime delusioni sì, ma dei nostri figli. Non avevo messo in conto la mia.
Se io fossi diversa ora verrei a sedermi al tavolo con voi e vi farei vergognare, perché io sono nel giusto e quelli sbagliati siete voi, ma allora perché sono io a sentirmi sbagliata? Perché guardandovi mi sento un’intrusa?
Tu sembri felice, spero tu lo sia perché è caro il prezzo che sto pagando.
Giro sui tacchi con un nodo alla gola che mi impedisce di respirare, sbatto forti le palpebre, qualcosa mi opacizza la vista.
Cambio strada per non essere vista, cambio strada perché il mio posto è altrove, cambio strada alla ricerca di un pensiero felice.

M.B.

Non c’è quiete dopo la tempesta

Non c’è quiete dopo la tempesta.

Quando anche l’ultima onda schiumerà sulla battigia aspettando che il vento si taccia tutto sarà dimenticato. Il silenzio riempirá i vuoti con mille e mille immagini che sfileranno dagli occhi al cuore.

La paura farà il nido in un angolo e sarà sempre lì pronta a spegnere i sorrisi, subdola e vigliacca scivolerà tra l’incoscienza e il coraggio per fare capolino all’imbrunire tra macchina e palestra o in pieno giorno da dietro la colonna del garage sotterraneo del super market.

Sarà inutile aggrapparsi a quel “se”, non cambierà la storia. E non resterà che ostentare forza e spavalderia per non soccombere alla prigione opaca che tutto frena e opprime la spontaneità.

La gioia della libertà di espressione sarà un remoto ricordo di bambina.

M.B.

SE CI FOSSI

Se ci fossi ti direi che avevo tante speranze.
Ti direi che avevo tanti desideri.
Ti direi che ero piena di buoni propositi.
Io non volevo recare disturbo. Volevo un posto dove vivere.
Sono partita per allontanarmi dai pericoli della guerra, della fame, delle botte e delle violenze. Volevo vedere se la vita è un’altra, volevo cercare il senso di questa esistenza. Volevo scoprire la gioia, Volevo capire che cosa si prova quando si è felici.
Era troppo il peso delle aspettative perche la barca potesse galleggiare.
Se ci fossi ti direi che su quella barca ho vinto la paura.
Ti direi che ho assaggiato un po’ del sapore della libertà.
Ti direi che ho iniziato a credere nelle speranze e che forse, forse ho potuto immaginare che cos’è la felicità.
Se ci fossi ti direi che solo l’amore mi ha spinta a partire, l’amore per la vita.

M.B.

I vuoti dentro

Quando pensiamo alla vecchiaia vediamo rughe e capelli bianchi. Temiamo la demenza e le malattie. Dicono che i rimedi per la longevità siano la sana alimentazione, fare lunghe camminate e un po’ di sport, leggere e trovare interessi per riempire il tempo, è sì!, perché la cosa davvero tremenda nella vecchiaia sono i vuoti accumulati dal tempo. Anche se si possono trovare vantaggi nella vecchiaia i vuoti lasciati dai pezzi di vita che non ci sono più pesano e non c’è niente che li possa riempire. Sono vuoti che non si rendono, non li puoi comprimere che poi si dilatano e riempirli è solo illusione. Sono vuoti che occupano la memoria che per i vivi di spazio ne basta poco. Ma quando il cerchio dell’orizzonte si fa sempre più stretto è dolce scivolare tra i ricordi mentre un nuovo vuoto risucchierà lo spazio che ci apparteneva.

M.B.

ELLEBRO

Sei nata a ridosso dei Santi, eri bella come lo sono i fiori d’inverno.
Sei cresciuta passo dopo passo e io lì a braccia tese per attutire le cadute.
Sei fiorita sfidando ogni fragilità, con determinazione, sudando ogni traguardo con la fame di successo e io lì a sostenere ogni tua scelta.
Sei partita in cerca del tuo spazio e io lì col dolore che mi spaccava il cuore ad aiutarti a fare la valigia di chi non torna.
Ti ho spinta ad andare perché non ti volevo perdere e son felice di saperti felice.
Ancora un po’ bambina sei diventata la donna che avrei voluto essere e ora che mi manchi ogni giorno di più non c’è niente che sento di rimproverarti. Sono fiera del tuo coraggio, della tua forza, della tua lucida volontà e sono sempre qui a braccia tese che aspetto di riabbracciarti un giorno.

RIPETIZIONI di Giulio Mozzi

letterandoilblog

La domanda è:

dove finisce il vissuto e dove inizia l’immaginario?

È ricorrente questa curiosità leggendo le opere di Giulio Mozzi e in questo romanzo ancora di più.
Lo stile è inconfondibile, una firma inimitabile, è, più che mai, il punto di forza nella narrazione spoetizzata di un mondo in caduta libera.
Con esasperante normalità Giulio Mozzi ci propone azioni criminali moralmente inaccettabili e civilmente condannabili. La sua è una scrittura in bianco e nero, dove il bianco e il nero non assumono nessun significato, né mistico, né morale.
La narrazione scorre sul bordo affilato del dolore che nasce da un lutto passando poi attraverso l’abbandono per approdare nella rassegnazione. L’anafettivitá è il rifugio alla mancanza. L’anima giovanile impreparata al grande dolore congela gli affetti che restano imprigionati nei ricordi dell’infanzia quando fiducia e speranza non erano disattese.
La scabrosa sequenza delle immagini narrate diventa il normale  scorrere della vita…

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Il mio albero

Era partita bambina: la casa nuova, poi il collegio. Era tornata adulta, nel petto batteva ancora il cuore di bambina e l'emozione fu grande rivedendo la casa d'infanzia. La vecchia casa sembrava diversa, ma era sempre uguale; la nonna non c'era più.
E l'albero? Chissà se anche il suo albero rifugio era cambiato. Chissà se ora che era cresciuta l'albero era rimpicciolito, come sempre accade in questi casi. Quanti giochi e quante acrobazie aveva fatto tra i suoi possenti rami!! Rivide sé bambina mentre a fatica cercava di raggiungere il ramo più basso: il primo appiglio per iniziare l'arrampicata.  Doveva saltare a più riprese prima di riuscire ad afferrarlo. Ma che soddisfazione quando ci riusciva, una volta raggiunto e afferrato con forza, dopo un paio di dondolii, riusciva a issarsi e da quel momento  la salita era facile. Arrivava fino al ramo più alto, non aveva paura. L"abbraccio dei rami del solido amico erano rassicuranti. Da lassù tutto sembrava più facile, l'aria era più leggera e la gioia riempiva il petto. Respirava la stessa libertà dell'uccellino che nidificava a un passo da lei, tra l'intreccio di rami protetto dalla chioma. Sedeva paga di sé.  Il tempo governato dal sole lasciava spazio al laborioso lavorio delle formiche che veloci correvano tra i rami, o al curioso ondeggiare delle foglie mosse dal vento e accompagnate dal gracidare delle rane dello stagno poco lontano, qualche albero più in là.
Con tutte quelle immagini che riemergevano dalla memoria si incamminò sul sentiero che portava allo stagno, cercava l'albero, cercava la bambina, cercava l'ultimo legame con il mondo che apparteneva alla nonna.
L'albero non c'era più, al suo posto un enorme moncherino. Nella solitudine del boschetto, seduta su quel che restava del solido amico, pianse tutte le lacrima trattenute fino ad allora. Restavano le formiche e le foglie continuavano a danzare mosse dal vento al ritmo del gracidare delle rane.

M.B.

Pensieri in libertà