QUATTRO SIGARETTE PRIMA DI MORIRE

panchia autunno

         Diede l’ultimo morso alla mela e con un lancio veloce da softball fece volare il torsolo oltre la siepe dentro il laghetto. Si ricompose sedendosi sulla panchina seminascosta da un grosso salice e rimase a guardarsi le mani, più ossute e sciupate di un tempo, ma ancora molto belle. Le unghie pulite e regolari non se le mangiava più.

Frugò tra gli indumenti in cerca delle sigarette, non rammentava in quale tasca le avesse infilate. Ne restavano solo quattro nel pacchetto. Erano le ultime quattro sigarette della sua vita, non ne avrebbe più comprate. Doveva fumarle con attenzione, era necessario che il ricordo di quel aroma colmasse almeno l’arco di una giornata. Doveva prolungare il torpore, non doveva svanire scansato dall’indifferente sovrapporsi di altre sensazioni.
A quell’ora nel parco non c’era nessuno e non sarebbe stata disturbata. Era il momento giusto, ora poteva accendere la prima sigaretta del suo epilogo.
Calcolò ogni mossa. Estrasse la Camel Activate, fece esplodere la capsulina e la portò alle labbra tenendola tra l’indice e il medio della mano sinistra mentre nella destra stringeva l’accendino regalatole dall’amica mancata da appena un paio di mesi.
La fiamma investì l’estremità del sottile cilindro, bastò una boccata e il rosso incandescente della brace brillò nell’ombra della sera.
Il dolce aroma di mentolo si diffuse riempendole la bocca, non aspirò e socchiuse appena le labbra, un sottile nastro di fumo uscì e immediatamente il naso ne catturò il profumo che trovò così la via trasportato dall’ossigeno. Chiuse gli occhi e si abbandonò al momento. Liberò i pensieri e li lasciò andare trasportati dal fumo, degno mezzo di ciò che non sarebbe mai stato.
  Si rivide, giovane ragazza al suo ultimo provino, quello decisivo. Il momento era perfetto, la giusta dose di emozione epiano speranza produceva lo stress necessario per rendere al meglio l’esibizione. Dopo una falsa partenza chiese il permesso di ricominciare e le fu concesso. Il pianoforte riprese a suonare, questa volta erano le sue mani a muoversi sui tasti, non la testa ma il cuore a guidarle. L’emozione le chiudeva la gola, non sentiva più la lingua per quanto era secca. Per fortuna il provino prevedeva un brano acustico, non era richiesta anche l’interpretazione vocale. Non sarebbe riuscita a cantare.
Dopo le prime strofe la tensione fu incanalata nella passione che sprizzava come il sangue da una spremuta di cuore e andava a investire la commissione d’esame.
Il posto nell’orchestra poteva essere suo e finalmente la carriera di musicista avrebbe trovato il suo punto di partenza.
Tirò una boccata troppo lunga e il fumo si inceppò in gola, dovette deglutire quello che rimase incastrato.
L’eccitazione che provava nel sentirsi così dentro al brano che tanto amava era incontenibile. Il Bolero di Ravel era sempre stato per lei un brano travolgente. Ricordava di averlo sentito per la prima volta al cinema, era il brano conclusivo del film Bolero (Les une et les autres) di Claude Lelouch. Non l’aveva semplicemente ascoltato, ma l’aveva mangiato, bevuto, fumato, assorbito attraverso la cute. Ne era diventata parte, mai si era sentita così dentro un momento come nell’apoteosi finale del film con il lento e incalzante crescendo della musica di Ravel, la coreografia di Béjart e l’interpretazione sublime e travolgente di Jorge Donn, sullo sfondo la Tour Eiffel. Si sentiva lì, sul palco accanto a Jorge Donn, in mezzo all’orchestra tra i violini, e al microfono accanto ai vocalist. Si sentiva ovunque, immensa, trasportata dalle note di un Bolero favoloso. E adesso scaricava tutto il vigore di quel ricordo sui tasti del pianoforte.
La commissione applaudiva e i volti sorridevano. La prassi voleva che l’esito fosse formalizzato, nessuno disse niente. Le sarebbe arrivata la comunicazione per posta e lei avrebbe dovuto solo accettare.
L’amore arrivò prima, più travolgente e impetuoso di ogni ambizione. Non aprì mai quella lettera. Non volle sapere, non voleva dover scegliere. Vedeva solo un bivio e lei avrebbe seguito la via del cuore, a cosa serviva angustiarsi. Qualsiasi cosa le comunicassero non avrebbe avuto più nessuna importanza.
La prima sigaretta era finita, ne restavano tre.
Un po’ instabile sulle gambe si incamminò verso casa.

–*-*–*-*–*-*–*-*–*-*–

          Il giorno passò senza lasciare traccia nell’attesa di quel singolare appuntamento che aveva preso con se stessa e col passato.
Nessuna mela, nessun torsolo, nessun lancio. Era di nuovo sera e la panchina era sempre vuota. Il parco deserto.
La terza sigaretta si accese all’istante nonostante il vento leggero che muoveva le foglie, il secco rumore prodotto cullò il suo pensare.
rosa-nera-e-sanguePrendo io la valigia, tu sali in macchina”.
“No, non serve. Vado da sola”.
“Vengo con te”.
“Meglio di no. Vado sola, è una mia scelta”.
“Ne sono responsabile pure io”.
“Questa cosa non è NOSTRA, è solo mia”.
“Ok. Hai preso tutto? La cartellina degli esami e le impegnative?”
“Sì”.
“Sei sicura di voler andare da sola? Se poi hai bisogno di assistenza?”
“Non avrò bisogno di niente. Non ti devi preoccupare. Non avrò ripensamenti. Ora vai via per favore, ti chiamerò io quando mi sentirò di vederti”.
“Va bene… Lo sai che non ci sono alternative”.
“Lo so”.
“Ciao”.
“Ciao”.
Pochi chilometri. Pochi minuti. Il parcheggio. La reception. L’infermiera. Il camice. La cuffietta. Il lettino. Il chirurgo.orsetto
“Anestesia”.
“No, per favore no. Niente anestesia”.
“Sentirà male”.
“Lui di più”.
“Farò attenzione e sarò rapido”.
“Fatelo come volete, ma fatelo”.
Poche cose nella valigia, non era mancato il posto per Toby, l’orsetto.
Ti saresti chiamato Carlo. Diagnosi: idrocefalia.
La terza sigaretta aveva avuto l’effetto di uno spinello fumato con avidità, una boccata a ogni respiro. La brace sempre incandescente come una unica lunga tirata così veloce da lasciare intatta la cenere.
Un vortice smosse le foglie secche come a sprimacciare il cuscino per accogliere la cenere rimasta.
Era buio, si strinse nel golf e s’incamminò.
Le restavano due sigarette.

–*-*–*-*–*-*–*-*–*-*–*-*–

I^ parte della II^ puntata

Ancora un giorno come tanti e finalmente la sera.

Il parco sempre libero e la panchina sempre vuota.

Nessun segno, nessun appiglio, nessun imprevisto a farla deviare dai suoi propositi. Il percorso era sgombro e poteva proseguire dritta allo scopo.
Il pacchetto di Camel si presentò ormai vuoto, le sigarette rimaste erano solo due, ne estrasse una e chiuse subito per non dover provare tristezza per quella solitaria superstite già condannata. L’aroma di mentolo non le bastava più e lo rinforzò con una caramella. La scatolina di latta illustrava un battello col suo capitano: “l’amico del pescatore”.
fisherman friendLa barca viaggiava veloce, solcava fiera le onde. Il vento in poppa gonfiava la randa e il fiocco, birichino e dispettoso, bordeggiava vivacizzando la crociera. Il cielo sereno era sgombro da nubi e il mare increspava a tratti eccitando lo scafo.
Lui stava al timone, il berretto bianco con la visiera blu gli conferiva un’aria fiera e decisa. Lei si godeva il sole appoggiata al tientibene mentre il vento le accarezzava la pelle scompigliandole i capelli. Giochi innocenti distraevano i giovani a prua sotto l’occhio vigile del capitano.lascairsi12
Un lampo e il cielo si aprì. La crepa sulla volta celeste ruppe il cerchio e lasciò precipitare il buio delle tenebre che si riversò sull’imbarcazione.
Il piccolo universo, in perfetto equilibrio, venne travolto e disperso.
Il capitano arenò di schianto in una spiaggia arida e inospitale. Intorno solo i fantasmi di mangrovie sterili.
Lei vagò, persa tra dubbi e incertezze, stordita dal botto.
Che ne era stato di tutto l’amore donato? A che cosa era servito rinunciare ai propri sogni per seguire il sogno comune? La viso screpolatorotta era già tracciata e la meta non era lontana. A che cosa era servita tutta la strada percorsa se era bastato un lampo a disperdere le certezze? Che cosa può l’equipaggio quando il capitano abbandona il timone?
La barca diventa una noce in mezzo alla bufera e i passeggeri si raccolgono al suo centro nell’abbraccio del terrore aspettando che la tempesta si plachi e che il capitano ritrovi la rotta.

Tornerà il sereno e il viaggio potrà riprendere, il porto designato sarà finalmente raggiunto, ma la terra promessa avrà ancora lo stesso sapore?
La cicca spenta le scivolò tra le dita e lei non se ne accorse. Si era assopita. Anche la Fisherman’s Friend si era sciolta e sulla lingua non ne restava nemmeno la traccia. Un rivolo di saliva scivolò in gola come un soffio gelido a congelarle le tonsille, a cristallizzare il cuore.
Si alzò e tornò a casa.
Ancora una sigaretta prima di morire.

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Tre giorni erano passati sospesi sul nastro grigio srotolato dalle viscere. Restava una sola sigaretta, l’ultima. La fine era arrivata puntuale come sempre. Nessun imprevisto e nessun contrattempo l’aveva distratta, il momento era quello giusto. Sarebbe stato inutile rimandare.
Stese le gambe e raddrizzò la schiena arrivando ad appoggiare la testa allo schienale della panchina. Aveva assunto una posizione da catalessi apparentemente scomoda, ma in perfetta armonia con lo stato mentale.
La musica! La La/Sol# Fa#- Re
La La/Sol# Fa#- Re
La La/Sol# Fa#-
“Someone like you”
“Sometimes it lasts in love, but sometimes hurts instead”. A volte dura l’amore, ma a volte, invece, fa male.

Già!
Lui era lì, bello come allora. I tratti del viso, un po’ più duri, avevano perso la dolcezza della gioventù, ma gli occhi erano sempre gli stessi e come allora quello sguardo le violentava il cuore.
balloUna mano tesa la invitava a ballare sulle note di un pianoforte immaginario e lei accettò. C’era tutto in quell’abbraccio, tutto quello che le mancava. La mano aperta sulla sua schiena fondeva il calore del sole d’inverno quando spende riflesso dalla neve e acceca creando miraggi tra i cristalli. Come neve, lei ora, si scioglieva in quel calore infuso.
Lui la guidava sui passi di un valzer lento, ogni passo un confronto, ogni affondo una resa, ogni giro un cambio di rotta, ma uniti verso la stessa direzione. Due corpi appoggiati uno all’altro in perfetto equilibrio. Il viso affondava nel conforto del solido torace del ballerino muto che la portava passo dopo passo sui La La/Sol# Fa#- Re.
Aggrappata a quel corpo impettito nei passi di danza, sentiva i battiti del cuore rimbalzare sui muscoli tesi nei giri di valzer, nessun ritorno di echi gemelli, echi che non le appartenevano perché già da tempo rimbombavano nel petto di un’altra. Aspettare non era servito a niente. Inutile perdita di tempo, il suo turno non era mai arrivato.
In diagonale, rigida sulla panchina, con gli occhi chiusi avvolta dal fumo, si teneva stretta a quel sogno illecito nato e abortito nel rapido incrocio di due vite che non si erano mai intrecciate.
Amare senza essere corrisposti è concesso? Può diventare fuorilegge desiderare un amore senza averne diritto? Un sentimento d’amore spontaneo può mai essere illegittimo e criminale? Sì, sembra sia così dal momento che le pene sofferte sono peggiori di una condanna a morte.
Chissà se lui ha mai capito, chissà se ha saputo, chissà se ha solo per un attimo corrisposto quel sentimento legato a un elastico teso all’infinito e mai tornato.
Ancora un giro di valzer e anche sognare non basta più. Il ballerino è sordo, rigido e indifferente non corrisponde.
La sigaretta cadde di mano già spenta. L’ultimo alito di fumo accompagnò i Mi Re La lasciando la tristezza con tutto il suo peso a premere sul cuore soffocato nei sospiri. Aprì gli occhi mentre la testa annegava in un brodo di paure e la stanchezza indicava una boa quale ultimo suggerimento: la soluzione definitiva era l’unica via d’uscita.
Incurvò la schiena e raccolse le gambe. Tornò a guardarsi le mani, per quanto fossero belle non mentivano. Anche laccando le unghie non avrebbero ritrovato il vigore e l’entusiasmo per andare alla ricerca di ciò che per troppo tempo, pur atteso, non era arrivato. C’era sempre stata un’altra a vivere il suo sogno e Lei non era mai stata Lei.
Il pacchetto vuoto abbandonato sulla panchina le ricordò che non c’erano altri sogni da sognare, restavano i rimorsi e i rimpianti. Si alzò e con lenta determinazione avanzò verso il laghetto. Non si fermo e continuò a camminare verso il centro. Non sentì nulla, né l’acqua gelida, né il peso degli indumenti zuppi, nemmeno l’aria che mancava.
Tutto avvenne con naturalezza e il suo corpo assecondò la mente, non si ribellò quando l’acqua prese il posto dell’aria e tutto finì.
Le favole hanno sempre il lieto fine solo perché finiscono quando tutti vivono felici e contenti. Ma che cosa succede dopo che Biancaneve arriva al castello del suo principe azzurro? E Cenerentola chissà se si è mai maledetta per aver perso la scarpetta? La bella addormentata è stata davvero contenta di essere svegliata? Non lo sapremo mai. Nessuno lo dice.

fine

0c932d5777f56a089aadb5621d892759Monica Bauletti

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